L'autore di questo articolo della Civiltà Cattolica, segnalato da Pax Christi, è un nonviolento francese, gesuita, che ha pubblicato studi sulla nonviolenza nelle Presses Univeristaires Françaises, insieme a Semelin. Scrive Fabio Coazzina: "Mi pare che completi le riflessioni di questi giorni sul sistema di guerra al terrorismo che giustifica "troppo" in temi di militarizzazione e riduzione delle libertà personali e sociali".
Enrico
CHRISTIAN MELLON S. I.
Di fronte al terrorismo la prima reazione non è di perdersi in speculazioni teoriche sulla terminologia, anche se questa è necessaria. Ma una volta cessate le legittime reazioni d’indignazione e di collera, si tratta di riflettere sul fenomeno, sulle sue cause, su come opporvisi, sulle sfide che ci lancia, sulle false giustificazioni di cui si fregia. E come farlo senza mettersi prima d’accordo sul significato del termine?
È possibile definire il terrorismo?
Compito necessario dunque, ma difficile. Infatti, come il termine «genocidio», adoperato a torto o a ragione dai difensori delle cause più rispettabili(1), il termine «terrorismo» è oggetto di un’inflazione non ineccepibile: evidenti poste politiche in gioco si nascondono dietro la decisione di designare come terrorista un atto di violenza e non un altro. Quando Putin si sforza di far riconoscere ogni azione della resistenza cecena come «terroristica» — cosa esatta solamente per alcune di esse, come il disumano sequestro di Beslan nel settembre 2004 —, i suoi obiettivi sono evidentemente più politici che linguistici(2). Quando Bush invita a condurre «una guerra mondiale contro il terrorismo», come non seguirlo se si tratta di unire gli sforzi per evitare futuri 11 Settembre, ma come non rifiutare una retorica bellica nella quale la parola «terrorismo» finisce per includere forme di violenza che, per quanto poco simpatiche, appartengono a un’altra denominazione? Terroristi sono indubbiamente gli attentati suicidi contro civili israeliani; ma attribuire la stessa qualifica alle azioni militari dei palestinesi contro l’esercito di occupazione è fare politica, non scienza politica.
Non è facile dare una definizione del terrorismo: il terrorista secondo alcuni sarebbe colui che altri considerano un resistente(3). Tale scetticismo mostra che, per giungere a una definizione relativamente consensuale del termine, è importante non ragionare come militante di una causa, ma come osservatore con l’unico obiettivo di riconoscere lo specifico di un modo di agire particolare. Per arrivarci, bisogna inoltre affrontare un paradosso: se lo specifico del terrorismo dev’essere ricercato a partire dai mezzi che esso mette in opera — non a partire dalle motivazioni degli attori (perché ciò ricondurrebbe alle manipolazioni partigiane ora ricordate) —, non si può disconoscere che tali mezzi sono posti al servizio di obiettivi politici (in senso ampio: sociali, culturali, religiosi...), e ciò suppone che la definizione del termine tenga conto, se non delle motivazioni degli attori, almeno della natura politica dei loro obiettivi. Si parlerebbe forse di «terrorismo» a proposito di crimini simili perpetrati da una gang per estorcere denaro(4)? Paradosso rilevato da Antoine Garapon: «Sia che si scelga di fermarsi ai mezzi o di considerare solamente gli obiettivi politici, ogni volta si lascia cadere una dimensione del terrorismo, che è inscindibilmente un mezzo e un fine politico»(5).
La definizione data dalla Convenzione sulla repressione del finanziamento del terrorismo, adottata all’ONU l’8 dicembre 1999, è soddisfacente, poiché distingue bene i due aspetti. Essa definisce terroristico «ogni atto destinato a uccidere o ferire gravemente un civile, o altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità in una situazione di conflitto armato, quando, per sua natura o per il suo contesto, tale atto mira a intimidire una popolazione o a costringere un Governo o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un atto qualunque»(6).
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti integra nella sua definizione di terrorismo un elemento che è lontano dal ricevere consenso, poiché considera la condizione giuridico-politica degli attori: sarebbero terroristiche unicamente le violenze perpetrate da attori non statali(7). Aggiungere tale precisazione significa ignorare che gli Stati attuano talvolta politiche terroristiche, sia contro la loro popolazione sia contro popolazioni di cui occupano il territorio: torture, sequestri, deportazioni, internamenti psichiatrici si inquadrano in strategie terroristiche più che propriamente repressive, poiché, suscitando un terrore diffuso, mirano a dissuadere ogni velleità di opposizione o di dissidenza. Stabilire un nesso tra la qualifica di un atto violento e la condizione giuridica di chi lo commette va talvolta contro la logica e il senso morale: se un gruppo di uomini armati massacra la popolazione di un villaggio, la qualifica di tale crimine deve forse cambiare se quegli uomini portano o no l’uniforme di un esercito regolare? Si deve dunque parlare di «atto terroristico» se è perpetrato da miliziani o da guerriglieri, e di «spiacevole conseguenza in un’operazione di mantenimento dell’ordine» se è compiuta da parte di militari reclutati ed equipaggiati da uno Stato?
C’è un altro motivo per rifiutare tale legame: alcuni combattenti non appartenenti a corpi statali sanno imporsi limiti etici nell’esercizio della violenza, rifiutando soprattutto di prendere come bersaglio dei non combattenti. È il caso, ad esempio, di Abdul Rahman Ghassemlou, leader del Partito Democratico del Kurdistan iraniano negli anni Ottanta, che scriveva, partendo dalla propria esperienza di lotta armata contro il regime di Khomeini: «È forse possibile lottare per la libertà e massacrare la popolazione civile indifesa? È forse ammissibile accettare di lottare per i diritti dell’uomo e praticare la tortura, giustiziare prigionieri di guerra e ricorrere al terrorismo? Crediamo che tutto ciò non sia inevitabile [...]. Si può lottare contro la violenza con la violenza, senza tuttavia calpestare la democrazia e i diritti dell’uomo»(8).
La grande maggioranza degli oppositori al nazismo avrebbero firmato una dichiarazione di questo genere. Ancora una volta, simili distinzioni non sono sottigliezze meramente teoriche: riservare la qualifica di «terroristico» agli atti contro «non combattenti», è essenziale per la chiarezza del dibattito politico, come pure per la precisione del giudizio etico, come vedremo tra poco.
Il giudizio etico: no, senza eccezione
I responsabili di atti terroristici si mostrano in generale preoccupati di giustificarli, non solo politicamente, ma anche moralmente. Si invocano, secondo i casi: la giustezza della causa, la volontà di Dio, le violenze attribuite al campo avverso (la loro violenza sarebbe semplicemente una «contro-violenza», cioè una «legittima difesa»), i valori che pretendono di servire (giustizia, libertà, difesa dei poveri e degli oppressi ecc.). La confutazione di questi pseudoargomenti etici, spesso piuttosto deboli razionalmente, ma che trovano talvolta eco in alcuni settori dell’opinione pubblica, fa già parte della resistenza al terrorismo. Infatti l’indignazione non può sostituire l’argomentazione: occorre fondare, non solamente in diritto ma in etica, una condanna radicale di tali atti, senza scappatoie o reticenze(9).
Su che cosa fondare tale condanna? Eliminiamo subito il criterio quantitativo, secondo il quale un atto violento sarebbe tanto più condannabile quante più vittime provoca. Con questo principio il terrorismo non meriterebbe particolare severità. Paradossalmente, si potrebbe anche sostenere il contrario, poiché le vittime di atti terroristici — si esita a ricordarlo, tanto macabre sono queste contabilità, soprattutto per i parenti delle vittime — sono poco numerose in rapporto ad altre forme di violenza, soprattutto le guerre, senza parlare dei massacri e dei genocidi: si valuta che, nella regione dei Grandi Laghi, 3 milioni e mezzo di persone siano scomparse tra il 1997 e il 2000, vittime dirette o indirette delle violenze. È l’equivalente di un 11 Settembre al giorno. Cifre analoghe si danno per il Sudan, per un periodo un po’ più lungo(10). La sproporzione tra l’ampiezza degli effetti politici del terrorismo e la scarsezza delle distruzioni con le quali esso ottiene tali risultati costituisce anche una delle caratteristiche paradossali di tale strategia, già rilevata da Raymond Aron: «Viene detta terroristica un’azione di violenza i cui effetti psicologici sono sproporzionati nei confronti dei risultati puramente fisici»(11). È vero che questo giudizio sarebbe radicalmente modificato se gruppi di terroristi riuscissero a impadronirsi di armi di distruzione di massa.
Eliminiamo anche ogni valutazione fondata sul carattere più o meno «giusto» (moralmente) della «causa» al cui servizio sono commessi gli atti terroristici. Infatti, anche supponendo che alcune di queste cause possano apparire «giuste» — liberare un territorio occupato da un esercito straniero, recare soccorso a un popolo oppresso —, ciò non risolverebbe affatto il problema, poiché, come si è appena visto, ciò che specifica il terrorismo è dell’ordine dei mezzi: il fatto di cercare di «uccidere o ferire gravemente un civile, o altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità». In altre parole, non è con il metro dei criteri dello ius ad bellum, ma con quelli dello ius in bello che si devono giudicare gli atti terroristici(12). Anche nei casi — ravvisati con i criteri dello ius ad bellum: legittima difesa, intervento per porre fine a un genocidio o a una pulizia etnica ecc. — nei quali si può ritenere moralmente giustificato il ricorso alla violenza delle armi come estrema risorsa, lo ius in bello valuta tuttavia che non tutto sia permesso circa i mezzi posti in atto. Su tale punto oggi il consenso è generale, sia tra i filosofi moralisti sia tra i giuristi. Ognuno percepisce del resto intuitivamente, anche se non è né giurista né moralista, la pertinenza della distinzione tra «atti di guerra» e «crimini di guerra». Ora, se ci sono crimini di guerra, ciò significa che anche l’esercizio della violenza rimane regolato da divieti assoluti.
Il primo di tali divieti verte su qualsiasi atto riguardante deliberatamente i non combattenti: si trova in tutti i testi che regolano il diritto della guerra, soprattutto le Convenzioni di Ginevra, ma anche i regolamenti interni degli eserciti dei Paesi democratici. Qual è il fondamento etico di tale «principio di discriminazione», cioè, tra combattenti e non combattenti? È la convinzione che il rispetto di ogni vita umana è un imperativo così importante che, nelle situazioni in cui si è costretti a fare eccezioni, si devono limitare tali eccezioni a quelle strettamente necessarie. Sono dunque bersagli «legittimi» (moralmente e giuridicamente) unicamente le persone che occorre mettere «in grado di non nuocere» per far cessare l’aggressione di cui essi sono autori. Ogni altra persona è «innocente», nel senso non morale ma etimologico del termine: essa non nuoce. Nulla dunque autorizza a prenderla a bersaglio di qualsiasi violenza.
Rifiutare la pertinenza di questo principio, con il pretesto che le forme moderne di guerra rendono meno netta la distinzione tra combattenti e non combattenti — ciò non è falso, ma «meno chiaro», il che non equivale a «inesistente» —, sarebbe adottare una delle giustificazioni fondamentali del terrorismo: non ci sono innocenti. Durante il processo in cui era imputato, l’anarchico Emile Henry, che aveva lanciato una bomba in un bar di Parigi nel 1894, si giustificava così: «Non ci sono innocenti nella borghesia». Per i jihadisti di al-Qaeda, ogni persona presente nelle Twin Towers l’11 settembre 2001 era «colpevole». Si nota qui una parentela eloquente — e inquietante — tra la logica dei terroristi e quella degli autori di genocidi: nell’uno e nell’altro caso, le vittime non sono indicate in funzione di ciò che fanno, ma di ciò che sono. Gli autori di genocidi dicono: «Vi uccido per la sola ragione che siete ebrei, o zingari, o tutsi ecc.»; e i terroristi: «per la sola ragione che siete americani, od occidentali, o “infedeli” ecc.».
Comprendere senza scusare
Per lottare efficacemente contro un avversario, bisogna sforzarsi di conoscerne l’identità, le motivazioni, i comportamenti (psicologici, sociali, politici) e soprattutto gli obiettivi. È necessario dunque cercare di comprendere i terrorismi. A tale esigenza alcuni obiettano talvolta che, cercando troppo di capire, si rischia di scivolare surrettiziamente verso lo scusare. L’argomento non tiene: cercano forse di scusare Hitler e i suoi crimini coloro che esplorano il contesto politico, economico, culturale della Germania di Weimar, per capire perché egli è arrivato al potere? Mettere in evidenza il ruolo del Trattato di Versailles, della crisi economica del 1929, della cecità di certe forze politiche e sociali tedesche, è forse minimizzare i crimini dei nazisti? Così, non è attenuare la condanna dei crimini perpetrati a Manhattan, poi a Madrid o Londra, il cercare di capire perché l’islamismo radicale si sviluppi da alcuni anni, perché una buona parte del mondo arabo-musulmano provi sentimenti di ostilità verso gli Stati Uniti o, più in generale, verso l’Occidente percepito come «cristiano», perché i candidati agli attentati suicidi crescano persino nei nostri sobborghi o università. Nessuno infatti nasce terrorista. Se dunque il terrorismo non è genetico, bisogna cercare di sapere perché cresce su alcuni terreni e non su altri.
Il terreno dell’islamismo radicale. Il terrorismo non data da ieri. Per rimanere negli ultimi 50 anni, esso è stato praticato da movimenti di liberazione, da gruppuscoli rivoluzionari (soprattutto in Germania e in Italia), da nazionalisti (IRA, ETA, FNLC [Fronte Nazionale di Liberazione della Corsica]), da Stati, manipolando gruppi per far passare i propri messaggi politici. Si pratica anche nell’ambito di alcuni conflitti attuali: Colombia, Israele/Palestina, Kashmir, Cecenia, Sri Lanka, Mindanao. Ma le chiavi di lettura, che una lunga esperienza ci ha fornito per interpretare queste diverse forme di terrorismo, sembrano insufficienti di fronte agli attentati dell’11 Settembre, di Madrid e di Londra: il numero delle vittime (si è parlato di «iperterrorismo»), l’ampliamento delle poste in gioco (mondiali e non più territoriali), la difficoltà di percepire gli obiettivi politici presi di mira (dov’è il patteggiamento? qual è il messaggio?) disorientano le analisi familiari in passato. Se gli obiettivi di movimenti come hamas o jihad islamica sembrano piuttosto facilmente identificabili, essendo legati a poste in gioco territoriali, dunque politicamente definiti, quelli dell’area al-Qaeda lo sono meno. Il suo discorso si riferisce a tutte le lotte dei musulmani, ma i suoi militanti non si identificano con nessuna. Questo terrorismo «fuori campo» è proprio quello tipico di un tempo di globalizzazione.
Dalla difficoltà di percepire la strategia che ispira tali crimini, alcuni concludono frettolosamente che non ne esista nessuna. Avremmo a che fare solamente con dei «folli di Dio», schiavi di una sorta di delirio, che colpiscono senza altro scopo che di fare il maggior male possibile ai «nemici dell’islàm»: l’Occidente degli «infedeli», dei «crociati» e dei «sionisti», i cattivi dirigenti dei Paesi musulmani. Ma l’espressione «folli di Dio» — che peraltro è del tutto erronea(13) — induce in errore, perché c’è realmente una strategia dietro a ciò che sembra puro delirio. Al-Qaeda non s’inserisce certamente (o non ancora?) in una logica di patteggiamento(14), ma ha veramente un progetto strategico: precipitare l’Occidente in un caos tale da rendere evidente che la modernità occidentale è forte solamente in apparenza. C’è analogia con il vecchio tema maoista della «tigre di carta». Dietro l’apparente follia dell’impresa, c’è un messaggio da cogliere, che si rivolge del resto ai musulmani più che agli occidentali: smettetela di credere all’onnipotenza dell’Occidente, abbiate fiducia nella vostra forza, eliminate i «rinnegati» e i «servitori» che dirigono i vostri Paesi.
Resistere senza rinnegarsi
I responsabili politici hanno indubbiamente il diritto e il dovere di prendere le misure necessarie per evitare che si ripetano simili atti. Dopo l’11 Settembre, le politiche antiterroristiche — vigilanza della polizia, informazioni, interruzione dei flussi finanziari che alimentano le reti, maggiore snellezza nelle procedure di estradizione — si sono rafforzate e meglio coordinate, almeno tra i Paesi che hanno preso coscienza di un pericolo comune. Sono emerse tuttavia incertezze sull’elaborazione e sull’attuazione di tali politiche. Nessun democratico legato allo Stato può accettare che siano trasgrediti, come a Guantanamo, i princìpi fondamentali che tutelano le persone. Non si protegge la democrazia minacciandone le fondamenta(15). Invocare il principio «il fine giustifica i mezzi» sarebbe proprio adottare il punto di vista degli stessi terroristi, come sottolineava Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2004 (n. 8): «I Governi democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai princìpi di uno Stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tenere conto dei diritti fondamentali dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi»(16).
La nuova sfida del terrorismo è grave; ma è importante resistere alla tentazione di leggere tutta l’attualità mondiale in questa chiave: dopo 45 anni di «guerra fredda» e una decina di anni del «nuovo ordine internazionale», l’11 Settembre ci avrebbe introdotti in una nuova èra, quella della «guerra mondiale contro il terrorismo»... Ora, la maggior parte delle grandi questioni relative alla pace e alla giustizia — si tratti della lotta contro la povertà, della regolamentazione del commercio internazionale, del mutamento climatico, delle stragi dell’AIDS in Africa ecc. — si pongono in termini che l’11 Settembre non ha cambiato. La minaccia terroristica sui nostri Paesi, per quanto seria, non deve farci dimenticare che l’immensa maggioranza degli uomini e delle donne del pianeta non sono minacciati dal terrorismo, ma dalla guerra civile, dalla miseria, dall’esilio forzato, dall’oppressione politica, dalla negazione dei diritti elementari ecc.
«Guerra mondiale contro il terrorismo»: una retorica pericolosa
La retorica del presidente Bush sulla «guerra mondiale contro il terrorismo» vuole spingere alla mobilitazione. Ma, oltre che legittimare la repressione di Mosca contro i ceceni e quella dei cinesi contro gli Uigurs, è politicamente controproducente, perché porta acqua al mulino di quegli stessi che pretende di combattere. Globalizzare la nozione di terrorismo, negando la specificità di ognuno dei «diversi terreni» del terrorismo, significa fare precisamente quello che vogliono gli islamici radicali; annettendo in qualche modo alla strategia non legata al territorio di al-Qaeda azioni che sono invece molto legate al territorio, si aiuta Bin Laden e i suoi seguaci a consolidare il mito di un’unica impresa di opposizione frontale, su scala mondiale, tra l’umma musulmana e un Occidente demonizzato in blocco. Parlare di «guerra mondiale al terrorismo» significa favorire uno degli obiettivi che si può attribuire all’islamismo più radicale: dare ragione alla celebre tesi di Huntington sullo scontro di civiltà. Non basta dire che tale tesi ha scarso fondamento; bisogna anche agire in maniera tale che essa non finisca per realizzarsi.
Sfida per la democrazia. Il terrorismo costituisce — si dice — «una sfida per la democrazia». In effetti, le nostre democrazie hanno mostrato, in occasione delle ondate terroristiche degli anni Ottanta-Novanta, una coesione e una determinazione molto forte per resistere a tale forma di violenza, senza tradire i propri valori essenziali. Avverrà lo stesso domani? Occorre vigilare. In proposito i movimenti per la difesa dei diritti umani denunciano derive molto inquietanti(17). In un clima di paura, anche i poliziotti britannici possono commettere l’irreparabile, come ha mostrato il triste caso del giovane brasiliano ucciso nella metropolitana di Londra.
L’atteggiamento da adottare di fronte agli atti terroristici e i giudizi da dare sui diversi tipi di politica antiterroristica rinviano a dibattiti importanti sui fondamenti di una società democratica: privilegiare piuttosto la sicurezza o piuttosto la libertà, accettare rischi più o meno gravi, andare più o meno lontano nelle «misure eccezionali» dipende da opzioni politiche ed etiche. Se una società democratica ne discute serenamente, se per tutelare i propri princìpi resiste ai richiami dovuti ai timori per la sicurezza pubblica, se rifiuta di farsi dettare le proprie opzioni politiche — nazionali o internazionali — per il timore di eventuali attentati, accetta con successo la «sfida terroristica».
* L’articolo si ispira largamente alle riflessioni, pubblicate con lo stesso titolo, dalla Commission Justice et Paix-France lo scorso marzo (cfr Documents-Episcopat, n. 3-4, 2005). Iniziata al momento degli attentati di Madrid, la riflessione trova, purtroppo, una nuova attualità dopo quelli della scorsa estate a Londra e a Sharm-El-Sheik. Per leggere il documento nella sua integrità rivolgersi a Justice et Paix-France, 17, rue N.-D. des Champs, 75006 PARIS (o justice.paix@wanadoo.fr). Altri recenti documenti, pubblicati da Justice et Paix-France, sono consultabili su www.justice-paix.cef.fr
1 Cfr J. SÉMELIN, Purifier et détruire. Usages politiques des massacres et génocides, Paris, Seuil, 2005.
2 Cfr A. LE HUÉROU, «Le conflit tchétchène après la mort d’Aslan Maskhadov», in Etudes, septembre 2005, 161-170.
3 Per sostenere tale scetticismo, si ricordano i resistenti definiti «terroristi» dall’occupante tedesco e da Vichy, in Francia; si potrebbe aggiungere che, nel Nicaragua degli anni Ottanta, i combattenti Contra erano terroristi per i sandinisti, ma «combattenti per la libertà» per l’amministrazione Reagan. Tali esempi non provano nulla; sottolineano soltanto che, per definire il terrorismo, bisogna eliminare i punti di vista di attori tanto lontani dalla neutralità scientifica quanto la Gestapo, Vichy, Reagan o i sandinisti.
4 Secondo il codice penale francese, il «turbamento dell’ordine pubblico» è un elemento costitutivo del terrorismo: rientrano in tale definizione i crimini commessi «in relazione con un’impresa individuale o collettiva finalizzata a turbare gravemente l’ordine pubblico con l’intimidazione o con il terrore» (artt. 421, 1-5).
5 A. GARAPON, «Comment lutter démocratiquement contre le terrorisme?», in Culture Droit, février-mars 2005.
6 Adottata nel quadro di un negoziato su un punto pratico preciso, questa non si può considerare la definizione del terrorismo data dall’ONU, che non sempre esiste, nonostante gli sforzi di Kofi Annan. Il consenso non si può ottenere dall’Assemblea Generale, soprattutto perché la Lega araba teme che il termine venga utilizzato per qualificare gli atti compiuti nell’ambito di una «lotta contro un’occupazione straniera». La mancanza di definizione comune non ha impedito al Consiglio di Sicurezza, unanime, di condannare il terrorismo in ogni sua forma, il 14 settembre 2005.
7 Secondo il Dipartimento di Stato statunitense, il terrorismo è una «violenza premeditata, politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi infra-nazionali o da agenti clandestini, generalmente in vista di influenzare un pubblico» (Patterns of global terrorism, 2003).
8 Citato in L’état du tiers monde, Paris, La Découverte, 1987, 166. Lo stesso Ghassemlou fu assassinato due anni dopo, a Vienna, nel luglio 1989 dai servizi segreti iraniani.
9 Per una buona esposizione degli argomenti avanzati da alcuni per «scusare» il terrorismo e una vigorosa confutazione di tali argomenti, cfr M. WALZER, De la guerre et du terrorisme, Paris, Bayard, 2004, 80-98.
10 Nel 2004, secondo le statistiche del Dipartimento di Stato statunitense, il mondo ha conosciuto 655 attentati, che hanno causato 1.907 morti e circa 7.000 feriti. Lo stesso anno, le violenze e i massacri nel solo Darfur hanno causato 200.000 vittime.
11 R. ARON, Paix et guerre entre les nations, Paris, Calmann - Lévy, 1984, 176.
12 Queste due nozioni rimandano a una distinzione elaborata nella tradizione cristiana di riflessione etica sulla guerra — nota con il triste nome di «guerra giusta» —, ripresa nella sostanza nel diritto internazionale moderno. Sulla pertinenza attuale dei criteri proposti da tale tradizione, rimandiamo allo studio collettivo di G. ANDREANI - P. HASSNER (dir.), Justifier la guerre? De l’humanitaire au contre-terrorisme, Paris, Presse de Sciences Po, 2005.
13 Gli studi rigorosi pubblicati sugli autori degli attentati di area islamica radicale contraddicono l’idea comunemente accolta — perché rassicurante per certi versi — secondo la quale si tratterebbe di pazzi, di asociali, di criminali. Cfr F. KHOSROKHAVAR, Les nouveaux martyrs d’Allah, Paris, Flammarion, 20032, e M. SAGEMAN, Le vrai visage des terroristes, Paris, Denoël, 2005.
14 Benché gli attentati di Madrid e di Londra siano simili al modello classico del terrorismo, sono invece attentati da patteggiamento e di pressione quelli che colpiscono Paesi con militari impegnati in Iraq: più che per punirli è per fare pressione sui loro Governi perché ritirino i loro soldati. Questa diversità degli obiettivi sembra dare ragione a quanti, come Olivier Roy, vedono al-Qaeda come una rete allentata piuttosto che un’organizzazione centralizzata. Certamente c’è un’organizzazione madre, ma questa delega filiali locali, abbastanza autonome, offrendo loro il proprio marchio. Cfr O. ROY, «Al-Qaïda, label ou organisation?», in Le Monde Diplomatique, septembre 2004.
15 Su questo punto fondamentale, ma troppo complesso per essere qui esposto, si rinvia alla 4° parte del documento di Justice et Paix-France: «Lutte contre le terrorisme: dimensions juridiques et respect des droits de l’homme». Cfr anche A. GARAPON, «Comment lutter ...», cit.
16 In Civ. Catt. 2004 I 9.
17 Cfr, ad esempio, il rapporto 2004 di Amnesty International, in
http://web.amnesty.org/report2004/hragenda-1-fra
© La Civiltà Cattolica 2005 IV 566-575 quaderno 3732
12.1.06
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