13.6.06

Relazione introduttiva all’assemblea nazionale del MIR

Per preparare questi appunti sono andato a rileggermi la relazione fatta lo scorso anno per ispirarmi, poter fare un bilancio ed un confronto; devo dire, con una certa mestizia, che quanto scrissi lo scorso anno, potrei riscriverlo anche adesso, per cui a quella relazione, pubblicata anche su Qualevita, vi rimando.
Dico questo perché mi par di notare che le cose sono cambiate poco, e quel poco più in peggio che in meglio.
Per bilanciare questo pessimismo posso ripetere quanto scritto nell’invito a questa assemblea, quando, parlando del nostro cammino di ricerca della nonviolenza, dicevo che “questo cammino va, come tutte le cose umane, tra alti e bassi, in mezzo a difficoltà ed errori, ma anche a sforzi generosi, a successi piccoli e grandi”
Non è che non ci siano stati fatti positivi, passi avanti, sia nel nostro piccolo Mir, che nella società, ma questo procedere è stato quest’anno molto zigzagante.
Ma procediamo con ordine, dando una scorsa al quadro generale, politico sociale mondiale, in cui ci troviamo ad operare.
Purtroppo qui c’è poco di nuovo rispetto all’anno scorso.
La strage in Irak continua imperterrita ed ha sempre più l’aspetto di una guerra civile interna, piuttosto che di una rivolta contro l’occupazione. Ogni tanto apprendiamo, con stucchevole sorpresa, che le truppe d’occupazione “americane” si sono comportate lì come si sono sempre comportate tutte le truppe di occupazione in qualsiasi paese; possiamo anche fregarci le mani rilevando come “avevamo ragione” quando dicevamo che la guerra era inutile e avrebbe peggiorato la situazione! Una ben magra consolazione che non ci esime dal cercare di capire come la annunciata seconda grande potenza possa davvero diventare tale e riuscire ad essere capace di fermare la prossima guerra.
La quale è anch’essa già annunciata: prossimo obiettivo l’Iran, terza più grande riserva di petrolio al mondo dopo Arabia saudita e Irak; la classe dirigente iraniana sa da tempo di essere nel mirino (il famoso documento The new american century l’hanno letto anche loro) e cerca di prepararsi: come? Organizzando una resistenza popolare nonviolenta? No, seguendo la ben più battuta strada del riarmo, cercando di ottenere l’arma delle armi: l’atomica. Infatti, l’esperienza storica dimostra che il possesso dell’arma atomica è una sorta di assicurazione contro le invasioni: Israele da anni ce l’ha ed è praticamente diventato intoccabile; è quella la miglior assicurazione al diritto all’esistenza.
Poiché aldilà delle affermazioni e dei documenti, anche gli strateghi americani sanno che uno stato che possieda l’atomica diventa praticamente inattaccabile, a meno di mettere in conto una guerra nucleare, che nessuno, neanche i generali americani, vorrebbero combattere, ecco che scatta la teoria della guerra preventiva: intervenire prima che l’arma letale diventi “usabile” dal nemico, anche minacciando di usarla per primi, comunque prima che gli altri possano rispondere. E’ chiaro che qui non è in gioco la mutua distruzione assicurata come ai tempi della guerra fredda, la distruzione verrebbe assicurata ad una parte sola; l’Iran non sarà mai in grado di colpire gli Usa, ma può colpire qualche loro base in medio oriente, e comunque una guerra atomica tra Usa ed Iran, anche se dall’esito scontato, sarebbe terrificante, innanzitutto per i loro vicini.
Ecco perché è importante per gli Usa intervenire prima che il nemico entri in possesso dell’arma micidiale.
Trovo abbastanza assurda la posizione dell’UE, o anche di Russia e Cina, che fanno finta di credere che il problema sia il nucleare civile, offrano soluzioni solo a questo, mentre in realtà la vera questione è garantire all’Iran il “diritto all’esistenza”, ovvero un patto di non aggressione con gli Usa e con i vicini: ma questo significherebbe cercare di risolvere per via diplomatica l’intero groviglio mediorientale, con annessi e connessi: al di fuori di questa non esistono, secondo me, soluzioni credibili.
Ma questo nessuno ha voglia di farlo: né l’UE incapace di svolgere una politica estera autonoma, per la quale stare sotto l’ombrello americano sarà scomodo e irritante, soprattutto se alla guida del gigante c’è una cricca di rozzi spocchiosi e inguaribili yankee che si ritengono investiti della missione di salvaguardare la civiltà, ma dà anche un gran senso di sicurezza in un mondo in cui la corsa alle sempre meno pingui ed economiche risorse energetiche sta diventando sempre più drammatica. Ma neanche Russia, superpotenza decaduta, e Cina, superpotenza emergente, hanno realmente voglia di risolvere il problema mediorientale, e così, mentre abbaiano insieme agli altri, facendo anche loro finta che il problema sia la produzione elettrica, collaborano, soprattutto la prima a costruire quegli impianti che ufficialmente chiedono di chiudere.
Insomma la grande guerra energetica del XXI secolo è ormai iniziata:quali saranno i prossimi sviluppi?
Quello che fa più specie è che questa guerra viene mascherata da una rappresentazione che va sotto il nome di guerra di civiltà, che viene propinata sia in occidente che nel medio oriente e che viene creduta il vero problema, anche da molti nel movimento per la pace che vorrebbero contrastarla.
Questa che ho fatto è ovviamente una descrizione semplificata; la realtà è sempre molto più complessa. E nei conflitti odierni, come sempre, del resto, si intersecano motivi e ragione diverse.
Così, mentre assistiamo alle grandi manovre per conquistare posizioni per quella “guerra energetica” di cui sopra, abbiamo anche una guerra civile interislamica, cosa più reale dello scontro di civiltà propinato alle opinioni pubbliche.
Notate come, sia per il teatro delle azioni, che per i morti, che per gli obiettivi dichiarati, questa lotta opponga una parte dell’Islam, tutt’altro che omogenea, che potremmo definire fondamentalista, ad un’altra, anch’essa estremamente eterogenea, che viene definita moderata; la posta è la conquista della guida del mondo arabo ed islamico. I secondi sono al potere nella maggior parte di quei paesi, in genere sono tutt’altro che moderati, tengono sottoposti i propri popoli e cercano di inserirsi nel grande gioco mondiale, partecipano dei benefici del capitalismo occidentale di cui sono parte integrante, sono più o meno alleati dell’occidente. Gli altri rimproverano a questi il tradimento dell’Islam e della sua tradizione, per ripristinare la quale si sono buttati in una lotta senza quartiere. Certo, l’occidente viene definito il satana, ma la vera battaglia è contro i cosiddetti traditori arabi.
Non posso dilungarmi troppo su questo, vorrei solo far osservare che anche in occidente c’è un tentativo di accreditare questa sorta di guerra santa, per poter riscoprire l’identità perduta, o forse mai esistita, ma che, creando un clima da guerra per la difesa dei “nostri” valori, unisca attorno a dirigenti senza scrupoli e fondamentalisti, il popolino, dichiarando tutti coloro che sono incerti e gli oppositori, in “primis” i pacifisti, traditori disposti a vendere al nemico la propria patria.
Alcuni lo fanno in modo rozzo (un esempio per tutti, la nostrana Lega Nord), non hanno enorme successo, ma diffondono pericolosi veleni culturali,quali l’odio per lo straniero, il razzismo, tutti quegli ingredienti che giravano già a cavallo tra il XIX e il XX secolo e che ebbero come sottoprodotto peggiore il nazismo.
Altri lo fanno in modo più “soft”, più acculturato, perciò sono anche più accattivanti, dunque più pericolosi: si punta su un presunto pericolo islamico in Europa, che cercherebbe di distruggere i valori occidentali; si mette l’accento sull’identità occidentale-giudaico- cristiana: è il discorso dei cosiddetti “atei-devoti” che proprio per questo riceve troppe attenzioni dall’interno di una chiesa il cui percorso di avvicinamento alla non-violenza non è assolutamente scontato né acquisito una volta per tutte.
Esiste una differenza tra i 2 tipi di fondamentalismi: quello islamico sembra aggressivo e feroce, ma, a parte alcuni casi, è all’opposizione, non ha in mano le leve degli stati; quello occidentale è al potere nella sua superpotenza.
Ma attenzione: non esiste trappola peggiore che accettare questa rappresentazione della guerra di civiltà, magari per contrastarla, accettandone i presupposti; in odio alla superpotenza americana si segue il vecchio falso detto “i nemici dei miei nemici sono miei amici”, per cui si accetta l’altro fondamentalismo, considerato meno pericoloso, avvalorandone il suo mostrarsi in antitesi al capitalismo occidentale.
Anche tra pacifisti e nonviolenti c’è accondiscendenza verso questa parte, sempre giustificata, anche se criticata per i mezzi che usa.
In realtà i 2 fondamentalismi sono facce opposte della stessa medaglia, entrambi lavorano per portare il mondo alla distruzione, e non è che rafforzandone uno si indebolirebbe l’altro.
Quali dunque i compiti e la posizione dei nonviolenti e del movimento per la pace? Oggi come mai occorrerebbe ribadire la nostra totale e radicale alternatività ad ogni forma di fondamentalismo, smascherare l’inganno di chi grida alla guerra di civiltà per continuare ad opprimere i propri e gli altrui popoli ad occidente, e di chi chiama alla guerra santa non per liberare, magari con mezzi sbagliati, da un’oppressione più grande, ma intende imporre con la violenza la propria intollerante, razzista e misogina concezione del mondo, dimostrando ad ogni occasione di avere un grande nemico da combattere principalmente: lo spirito di libertà.
Non saremmo credibili se non fossimo chiari su questo punto né di fronte ai nostri popoli, né di fronte a chi dall’altra parte cerca di liberarsi da un giogo ancor più oppressivo e vede come unici alleati i sostenitori dell’esportazione armata della democrazia.
Non sono d’accordo con l’eccessiva “tolleranza” nei confronti dell’estremismo degli ayatollah iraniani; ricordiamoci che lì c’è un regime teocratico ed intollerante, che noi non sopporteremmo neanche un secondo, che opprime un popolo intero e si mantiene con la violenza e l’inganno.
L’altro mito da sfatare è quello del naturale corso degli eventi
Molti, anche tra i nonviolenti, sostengono che l’attuale modello di sviluppo, richiedente una continua crescita, e così dipendente dalla disponibilità di inesauribili fonti energetiche a basso costo, stia per entrare in crisi, proprio per il venir meno di quelle fonti. Questo metterebbe in crisi l’intero sistema, in particolare quell’area che più riceve benefici: l’occidente. Pertanto la crisi energetica, combinata con l’emergere di popoli fino a ieri sottosviluppati porterebbe fatalmente al crollo di quell’”impero americano” che i teocon vorrebbero invece centenario.
E’ questa una pericolosa illusione: innanzitutto questi processi, soprattutto quando non sono guidati, generano crisi e sconquassi politico sociali violenti e sanguinosi, in secondo luogo l’occidente si sta già attrezzando per la difesa ad oltranza del suo tenore di vita, e per questo è disposto ad usare tutto il suo terrificante arsenale: quando i pozzi di petrolio staranno per esaurirsi, è certo che l’ultimo barile se lo prenderà l’America.
La storia insegna che i cambiamenti sociali non avvengono se non ci sono dei soggetti sociali che si battono per essi, se manca l’elemento cosciente, un soggetto collettivo consapevole di dove si voglia andare.
Ed è su questo che rispetto all’anno scorso non si registrano passi avanti, anzi, forse dei passi indietro. La cosa tragica è che l’attuale sistema politico sociale non ha rivali né alternative.
I vari pensatori e attivisti nonviolenti dovrebbero meditare su questo, e soprattutto cercare un rimedio.

Veniamo a esaminare la situazione nella nostra piccola, e per certi versi provincialissima Italia.
Positiva la partenza di Berlusconi da Palazzo Chigi: il problema è che solo di un trasloco si è trattato e non di una vera cacciata.
Il berlusconismo rimane, non è stato sconfitto, è un’onda lunga che viene da lontano , fa leva su un populismo becero, talvolta anche con parole d’ordine apparentemente socializzanti (contro i poteri forti, l’invadenza dello stato, ecc.), ma interpreta in modo istrionesco ed estremo i sentimenti più profondi della piccola borghesia provinciale italiana e di larghi strati di popolazione, esattamente come faceva il fascismo negli anni ’30, quando tutto sommato godeva di un largo consenso e tanta gente si riconosceva nei modi, nei gesti del duce come oggi si riconosce in quelli del cavaliere.
D’altra parte lo schieramento che ha vinto le elezioni è variegato e composito, distante su tanti aspetti dal nostro punto di vista.
C’è chi si preoccupa dell’ipoteca della sinistra radicale sul governo Prodi, ma c’è una ben più forte e pesante ipoteca, quella dei poteri forti che hanno puntato sul centrosinistra perché Berlusconi è per sua naturale refrattario a qualsiasi alleanza che non si risolva in una sudditanza a lui, ma che hanno l’intenzione di condizionarlo pesantemente, soprattutto per le politiche sociali.
Dunque il lavoro da fare è tanto soprattutto culturale: minare alle basi il consenso che c’è attorno al liberismo e al berlusconismo (2 cose comunque diverse, in alcune parti coincidenti, ma comunque compatibili tra loro). Ma soprattutto rimane l’esigenza di una rappresentanza politica dell’alternativa, in particolare sui problemi della pace e dello sviluppo.
La sinistra radicale può essere una componente per certi versi a noi vicina, alcuni di loro si sono anche avvicinati a noi sul discorso della nonviolenza. Ma quando parlo di un soggetto politico in grado non solo di interpretare il malcontento, per ora minoritario, ma di dargli uno sbocco in positivo, una speranza, parlo di qualcosa di radicalmente nuovo.
A questo punto sorge spontanea una domanda: esiste, magari a livello solo embrionale, un insieme di idee che possa prefigurare un progetto alternativo all’attuale sistema dominante?
Mi piacerebbe sostenere il contrario, ma io non credo.
Troppo diverse sono le idee, le soluzioni adombrate, quando ci sono, ed in genere infarcite di eccessive approssimazioni, semplicismo, retorica, accompagnate da tanta, troppa presupponenza.
So di essere provocatorio, ma voglio calcare la mano su questo perché ritengo che i movimenti per la pace e nonviolenti debbano prendere coscienza che grande è il contributo che potrebbero dare, ma che la strada da fare è ancora lunga, e non si adagino in una autoreferenzialità che rischia di essere dannosa.
Lascio al prosieguo del dibattito, che spero possa continuare anche oltre questa assemblea, ben più di quanto sia successo finora, lo svisceramento di questa problematica, le possibili critiche a questa mia impietosa analisi, e soprattutto, la ricerca di correttivi: se qualcuno mi convincesse di aver peccato di eccessivo pessimismo sarei felicissimo, ma “i fatti sono testardi” (è una citazione di Lenin, un rivoluzionario cinico e crudele, che riponeva una totale fiducia nella violenza, non un buon maestro per noi, ma che si è posto un problema che dovremmo porci anche noi: come un piccolo gruppo di persone persuase delle loro idee e disposte a giocarsi completamente, possano, con forza di volontà ed intelligenza politica, trascinare un intero popolo a cercare di cambiare il mondo)
Ed ora veniamo al Mir
Dopo aver esaminato i grandi processi della storia, può sembrare ridicolo e frutto di quell’autoreferenzialità paranoica che ho appena denunciato, ma noi siamo quel che siamo; l’importante è sapere dove ci stiamo muovendo, con la coscienza che ben poco possiamo cambiare di nostro, ma quel poco è nostro dovere farlo e farlo bene. Un po’ come quando si va a votare: il mio voto non è mai determinante in sé, ma aggiunto agli altri, diventa determinante.
Discuteremo nel corso dell’assemblea ciò che abbiamo fatto e ciò che non abbiamo fatto, le campagne, i problemi che abbiamo incontrato, insomma le cose pratiche.
Io, da buon presidente, mi limito a fare un predicozzo cercando di individuare tre punti su cui vorrei che meditassimo:

1) L’essenza del mir
2) credere in noi stessi
3) rapporti col resto del mondo

1) Siamo un movimento a base spirituale che si “propone di portare l’anima nel movimento per la pace e la nonviolenza nelle religioni” (dalla dichiarazione IFOR in preparazione del consiglio mondiale).
E’ questo che caratterizza il Mir/Ifor rispetto ad altri movimenti nonviolenti, e su questo abbiamo intrapreso un cammino di approfondimento da circa 3 anni.
Questa è la III assemblea che dedichiamo a questo cammino, e così facendo abbiamo anche superato una fase che stava portandoci alla morte per asfissia.
Ora dobbiamo cominciare a pensare a come portare fuori questo lavoro, in modo da essere veramente fermento di una aggiunta nonviolenta da portare nelle comunità di fede, nelle chiese, coinvolgendo associazioni, parrocchie, comunità.
Secondo me lì ci può essere un grande spazio; è innegabile che grandi passi avanti sulla via di una maggior coscienza pacifista e nonviolenta sono stati fatti in questi anni nelle chiese, anche nella chiesa cattolica, soprattutto per l’impulso dato dal pontificato di Karol Wojtyla.
Durante l’introduzione al seminario Enrico Peyretti ha lanciato l’idea di “Cristiani per la nonviolenza”, un po’ come una volta c’erano i “cristiani per il socialismo”. Non sarebbe una cattiva idea, e potremmo proporla innanzitutto agli ambienti a noi più vicini, esempio Pax Christi, Agape.
Un’idea potrebbe essere quella di un campo su cristianesimo e nonviolenza.
Altre cose che potremmo fare; raccogliere documentazione e pubblicarla, proporla a case editrici di matrice religiosa; collegarci al lavoro dell’Ifor col suo piano di attività triennale
2) Ritengo che uno dei maggiori difetti del nostro movimento sia la mancanza di fiducia in se stessi; e non lo dico solo io, ho già sentito altri che da fuori han fatto la stessa osservazione.
Non possiamo uscire verso gli altri se… “non ci crediamo”.
Molte volte stiamo troppo dietro ai nostri problemi interni, spesso perdendoci nel proverbiale “bicchier d’acqua”, ingigantendo oltre misura banali questioni organizzative, o addirittura semplici difficoltà di relazioni interpersonali, dimenticando che la nostra “mission” è diffondere la nonviolenza, portare la sua aggiunta nel mondo.
Io penso che dovremmo fare uno sforzo per uscire da noi stessi, coinvolgere altri, non aver paura di presentare la nostra proposta, chiedere anche l’adesione al nostro movimento, soprattutto andare verso i giovani, che mancano nel nostro movimento.
Possiamo studiare strumenti più o meno belli, ma la precondizione è che noi stessi acquistiamo uno spirito missionario: esso viene prima dei mezzi che si utilizzeranno per realizzarlo.
Una volta realizzata questa iniezione di fiducia vediamo anche alcune proposte pratiche;un pieghevole, che stiamo realizzando, una campagna promozionale tra vecchi e nuovi iscritti e anche potenziali, da fare ogni inizio d’anno; una maggior presenza ai campi come movimento, con un invito all’adesione rivolto a tutti i partecipanti.
3) Non siamo soli nell’universo, ma soprattutto non siamo soli nel movimento per la nonviolenza. Anzi, questo è caratterizzato da una eccessiva frammentarietà; tanti piccoli gruppi, slegati, quando non in concorrenza tra loro.
Occorre far rete, avere dei momenti di convergenza; chissà se la campagna in preparazione contro la presenza di armi atomiche potrà essere uno di questi.
Noi abbiamo 2 direzioni in cui dovremmo rafforzare dei legami: una è quella internazionale; durante questi ultimi anni abbiamo iniziato a recuperare un rapporto con l’Ifor che col tempo si era un po’ perso: l’occasione del prossimo consiglio internazionale dell’Ifor e la preparazione che stiamo cercando di realizzare per questo è una tappa molto importante in questo cammino.
L’altra direzione è con i movimenti a noi vicini, con cui in passato abbiamo collaborato molte volte e con cui potremmo intraprendere iniziative comuni: ne cito 2: Movimento nonviolento e Pax Christi, ma anche l’area delle organizzazioni che fanno riferimento all’attuale campagna osm.
Concludo con un impegno e una richiesta: io mi propongo di lavorare in queste direzioni, cercando di darmi da fare più dell’anno appena trascorso, ma chiedo a voi di fare la vostra parte.
Oggi il Mir conta su poche forze (129 iscritti): partiamo da queste, ma smettiamola di guardarci solo tra noi e usciamo all’esterno.
Spero il prossimo anno, scadenza del mio mandato, di lasciare al mio successore un Mir che creda in se stesso, abbia ripreso il gusto di far politica insieme e abbia 500 iscritti, come ci eravamo proposti la scorsa assemblea.
Impossibile? Per una volta crediamo ai miracoli, ricordando che questi sono concessi solo a chi ha fede.

Gricigliana, 2 giugno 2006
Paolo Candelari
Presidente Mir

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